Materiale e Immateriale Avola

Masseria Ottocentesca

La masseria e le attività agricole

L’edificio che maggiormente caratterizzava il paesaggio ibleo, prima dell’importante urbanizzazione avvenuta a partire degli anni sessanta del Novecento, era la masseria: un’ampia dimora rurale con ambienti utilizzati come residenza e altri locali funzionali alle attività agricole come la raccolta e la lavorazione di grano, olive, mandorle e vite, ma anche l’allevamento di ovicaprini, pollame, conigli.
Quasi sempre queste strutture erano realizzate con pietra calcarea e legno; con i conci di pietra calcarea, materiale facilmente reperibile in loco o nelle cave circostanti, venivano realizzati le parti murarie ma anche gli stipiti di porte e finestre, gli archi dei porticati, i basolati e le soglie, invece il legno veniva adoperato per la costruzione di soppalchi (i taulati) e degli infissi, per la copertura dei vari ambienti, e in alcuni casi per ricavare delle pareti divisorie. Generalmente le masserie erano protette da alte mura perimetrali prive di aperture, e avevano un unico ingresso protetto da un ampio portone in legno o un cancello in ferro.
Ancor oggi nel comprensorio avolese, sono presenti queste tipologie di costruzioni di notevole volume ed estensione, alcune di esse sono in abbandono, altre sono state restaurate e rifunzionalizzate. La masseria ottocentesca di via G. La Pira, ristrutturata agli inizi del Duemila, un tempo circondata da terreni coltivati, si articola in vari ambienti che si affacciano all’interno di una corte (dove è presente la cisterna), alcuni avevano funzione residenziale, altri erano stalle, magazzini e altri ancora erano adibiti per la produzione di vino e olio. Una parte della masseria ospitava il palmento (u parmentu) e il frantoio (u trappitu), strutture utilizzate rispettivamente per le prime fasi della produzione vinaria e olearia.
Anticamente la lavorazione dell’uva avveniva all’interno delle vasche del palmento, disposte su tre livelli: l’uva raccolta, dentro grandi canestri di canne intrecciate e sottili rami di olivastro (i cuveddi ri carricu) veniva riversata nel primo livello, ovvero l’area di pestaggio, e qui i pistaturi, ovvero gli operai addetti a pestare l’uva, indossando scarponi bullonati, ritmicamente schiacciavano gli acini.

La parte liquida, il mosto, che derivava da questa operazione defluiva nei fermentini,le vasche del secondo livello, con volte a botte, dove rimaneva per ventiquattro o quarantottore, congiuntamente alla vinaccia (pasta). Successivamente, il liquido, attraverso fori di scolo, confluiva nelle vasche interrate (i fossi). La vinaccia, rimasta nelle vasche di mezzo, veniva recuperata e pressata con un torchio, da questa fase si produceva un liquido particolarmente tannico che veniva
aggiunto al mosto che si trovava nelle vasche inferiori. In conclusione il mosto veniva versato all’interno di piccole botti (i carrateddi) per essere trasportato nelle cantine.
Per quanto riguarda invece la produzione dell’olio d’oliva, i frutti venivano sottoposti alla frangitura, ovvero alla frantumazione delle olive attraverso l’impiego della mola formata da una macina verticale che ruotava intorno ad un asse su un’altra macina posta orizzontalmente, generalmente il movimento di rotazione era dato dalla trazione animale, infatti veniva impiegato un mulo o un cavallo. Attorno alla macina orizzontale vi era un ampio bordo circolare realizzato con conci di pietra calcarea inclinato verso l’interno, purtroppo questa fascia non è oggi visibile nel frantoio presente nella sala. Le operazioni venivano eseguite da un operaio detto u masciu di pala, che con una pala in legno riversava le olive dalla parte esterna alla parte interna, e si assicurava che la pasta prodotta fosse idonea per la fase successiva, la pressatura nel tornio. In questa fase la massa veniva posta all’interno delle coffe, dei contenitori realizzati con foglie di giunco intrecciate, e con un foro centrale, per essere sapientemente poste in pila.
La spremitura della pasta, veniva eseguita tre volte, infatti dopo ogni pressatura nel torchio, la massa tornava nuovamente nella mola, per poi ritornare nelle coffe ed essere nuovamente spremuta. Naturalmente anche gli scarti della lavorazione venivano reimpiegati per produrre altri prodotti (come il sapone) o venivano venduti. L’olio, per uso domestico, veniva conservato all’interno delle giare, vasi in terracotta il cui interno veniva reso impermeabile.

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